Ossigeno

9 Dietro mura alte come quelle di un castello, ma col filo spinato. Superando una sfilza all’apparenza sempre uguale di pesanti porte blindate operate da un secondino. Tra le braccia – meglio, i bracci – tutt’altro che accoglienti della legge. Lavorato dalle mani di donne e uomini invisibili al mondo che scorre, privati di giorni, mesi o anni, della libertà, non immaginate il buono che c’è dentro. Confesso: io stesso non l’avrei neppure sospettato, se non avessi accettato l’invito di Ossigeno a entrare per la prima volta in vita mia in carcere, scoprendo in primis che riuscire a visitarne uno è tutt’altro che facile. Napoli - La prima domanda me la fa Imma a bruciapelo: « Tu hai precedenti? ». E io mi sento imbarazzato come una signora a cui domandano in pubblico l’età. «Sai, non è così scontato» riprende lei. «A volte, anche persone che ci dicono di no magari hanno un fermo di polizia, un piccolo precedente, e farli entrare con noi diventa difficile». Imma Carpiniello , 45enne napoletana laureata in Scienze Politiche, è stata per due anni presidente di Freedhome , una rete di cooperative sociali italiane impegnate in progetti di rieducazione nati all’interno degli istituti di pena, con l’obiettivo di creare vero lavoro e prodotti artigianali di altissima qualità, capaci in alcuni casi di vincere premi internazionali di eccellenza . Dai taralli pugliesi preparati da Campo dei Miracoli all’interno della Casa Circondariale di Trani, al pane infornato da Brutti e Buoni nel Carcere di Brissogne ad Aosta; dalle preparazioni dolciarie siciliane di Dolci Evasioni , nella Casa Circondariale di Siracusa, a quelle a base di mandorle, pistacchi e nocciole di Sprigioniamo Sapori , nel Carcere di Ragusa; dai prodotti da forno di alta qualità di Cotti in Fragranza , all’interno del Carcere Minorile Malaspina a Palermo, fino al caffè napoletano delle Lazzarelle di Pozzuoli, che Imma coordina tuttora. «Lavorare in carcere non è facile, le difficoltà sono tante, per questo – dice – era stata creata la rete Freedhome, che diventava un punto di distribuzione, ma anche un modo per presentarsi al Ministero di Giustizia come una entità sola, partendo dalle problematiche comuni. Freedhome era nata per rappresentare e aggregare 13 esperienze comuni di carceri femminili e maschili, dal circondariale all’alta sicurezza. C’era addirittura una coop che lavorava con detenuti all’interno della scuola della polizia penitenziaria». Era , al tempo imperfetto, perché, come chiarisce Imma da sotto i suoi riccioli neri: « Sentiamo tutti il bisogno di qualcosa che ci rappresenti, ma è complicato ». E le cooperative sociali, piccole e tenaci come lei, hanno resistito fino all’esaurimento dell’esperienza di Freedhome, avvenuta lo scorso anno. Ora sono al lavoro per rilanciare. Imma, ad esempio, dal progetto di torrefazione del caffè Lazzarelle di Pozzuoli, è pronta a far nascere un bistrot nel centro di Napoli, all’interno della Galleria Principe, a due passi dall’Accademia di Belle Arti. E anche se manca, come sostiene Imma, «un contenitore di esperienze capace di decidere una linea d’azione insieme», da ultimo presidente di questa rete ufficialmente disciolta, non smette di aiutare chiunque glielo chieda. Il suo impegno ventennale è nato partecipando nelle carceri femminili alle attività dell’ Osservatorio di Antigone ¹, l’associazione che dal 1998 si occupa dei diritti e delle garanzie del sistema penale nel nostro Paese. «�uando entri in un carcere – mi racconta – ti viene da fare sempre una domanda alle detenute: “Che cosa ti manca?” E ti dicono i figli, gli affetti, certo, ma poi aggiungono: il lavoro . E tu ti chiedi perché. �uesto ha fatto nascere dentro di me una serie di domande su cosa significasse il lavoro per loro, e quanto sarebbe stato importante portare una cooperativa nel carcere. Perché normalmente, finché non l’abbiamo creata, si ragionava sempre del lavoro all’esterno del carcere, e mai del lavoro all’interno ». «E il lavoro serviva, serviva per svariati motivi. Sicuramente perché alle detenute servivano soldi. Perché oggi ti servono soldi per stare in carcere . Per una serie di cose che l’amministrazione nazionale carceraria non ti dà. Banalmente, gli assorbenti. Noi siamo donne, ogni mese dobbiamo acquistarli». E il carcere non li fornisce? «No». E se non hai i soldi? «Se non hai all’esterno una famiglia che ti sostiene, lavori per le detenute all’interno, creando una gerarchia. �uindi: cucino, ti faccio il letto, ti lavo i panni , in cambio tu mi dai un assorbente, una sigaretta, e via discorrendo». Su questo baratto si basa l’economia carceraria? «L’economia carceraria informale. Perché anche per stare in carcere c’è un costo di mantenimento» mi chiarisce Imma. « Tu, per stare in carcere, devi pagare, oltre al costo della vita, anche dei soldi allo Stato. Devi pagare il posto letto, l’acqua, la luce e il vitto ». La rivoluzione copernicana delle mie conoscenze inizia a farmi girare la testa, mi chiedo: ma come? Allora non è vero, come tutti pensiamo, che il carcere ti solleva dai pensieri, e ti danno vitto e alloggio pagato dallo Stato? «No» risponde decisa Imma. «Devi pagare tutto. E se non paghi, lasci il carcere con un debito che mediamente è di 60 euro al mese. Moltiplicato per i mesi della pena. Oltre a una cartella di Equitalia esecutiva non appena metti piede fuori. Esci con un doppio handicap: dello stigma del carcerato e di quello del debito ». �uindi, se il detenuto ha una proprietà… «Sì, diventa un pignoramento, oppure se hai un lavoro, una parte della busta paga viene trattenuta a monte, come per le nostre detenute». Sono fortunate, quindi… «Sì, hai il tempo di respirare, almeno». E quante detenute sono oggi rinchiuse a Pozzuoli? «È un numero che oscilla. Il carcere di Pozzuoli ha una capacità di 98 persone e una tolleranza di 130; attualmente, ce ne sono 190». Roma - Soltanto grazie all’esperienza ultradecennale di Imma, dopo neppure un mese, riuscirò a entrare a Pozzuoli; ma non prima di aver fatto tappa a Roma, per essere certo che all’impresa altamente etica di trovare un posto legale nella società a chi è stato in carcere, corrisponda una altrettanto alta qualità. Al pub Vale la Pena , aperto nella Capitale, ne ho la prima prova. Arrivo a tarda sera, in via Eurialo, alle spalle della fermata della metro Furio Camillo; mi accoglie Stephanie, bella trentenne che si occupa della sala assieme al suo fidanzato Massimo. La birra che scelgo, la Pils di Vale la Pena, è una classica bionda che rinfresca il palato, ma c’è una buona varietà di birre artigianali commerciali e un’altra prodotta in carcere, nell’Istituto di Pena di Saluzzo (CN): Pausa Caffè . La Pils che ho ordinato me la serve Oscar La Rosa , anima della rinascita di questo locale chiuso per alcuni mesi, e che lui ha deciso di riaprire, portandoci non solo la birra che gli dà il nome, ma anche tutti i prodotti migliori ¹ www.antigone.it

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