Ossigeno

131 Ci sono termini che, invece di inquadrare una definizione precisa, tendono ad assorbire significati. Sostenibilità è senz’altro uno di questi. Chi lo pronuncia può intendere cose estremamente diverse e ancora maggiore è la varietà di interpretazioni possibili per chi lo ascolta e, inevitabilmente, vi proietta le proprie convinzioni e aspettative. Come architetti ne facciamo un uso fin troppo ampio: costretti dall’urgenza delle questioni coinvolte e insieme inclini a sfruttare l’intrinseca “bontà” del concetto (chi può dirsi contro un impiego responsabile delle risorse?), finiamo spesso per essere vittime dell’ambiguità delle sue applicazioni operative. Un aspetto particolarmente spinoso e ingombrante è il sovraccarico etico degli approcci eco- bio-social-sostenibili . L’efficacia persuasiva delle loro argomentazioni si sostituisce a ogni altra considerazione, dentro e fuori la disciplina, confinando sul loro specifico terreno le valutazioni critiche che aspirano a una qualche rilevanza. Il Bosco Verticale ( Stefano Boeri Architetti , Milano, 2007-2014), ad esempio, è una brillante operazione progettuale e comunicativa che deve il suonome, e il suo successo, al “verde condominiale” spalmato sui prospetti. Si tratta di una soluzione controversa. Piantare alberi sulle terrazze a sbalzo non è propriamente “naturale” e portarli in alto implica una complicata gestione della manutenzione. Comporta inoltre un aumento dei carichi sulla struttura e, di conseguenza, un maggior impiego di materiali, tale da incidere sul bilancio energetico complessivo e quello relativo alle emissioni. Nei commenti sull’opera c’è chi, appunto, mette in dubbio l’impatto positivo dell’edificio in termini sociali ed ecologici e chi, invece, sottolinea la capacità di concentrare, e portare in città, una vasta superficie naturale equivalente. Prevalgono comunque le questioni quantitative, tanto che quasi nessuno, anche tra gli architetti, ha preso in considerazione aspetti maggiormente visivi. Eppure, il rapporto figura/sfondo tra piante (intendo il “bosco”) e prospetti è gestito con attenzione e sfrutta il contrasto bianco/nero delle superfici di rivestimento e la geometria astratta delle campiture. L’effetto di sovraesposizione vegetale che ne deriva è un fattore decisivo, capace di rappresentare i benefici locali sul microclima e sulla qualità dell’aria ben oltre il loro reale verificarsi. È un effetto che chiede di essere disegnato con mestiere, in modo che la narrazione del progetto venga accelerata dalla sua immagine. Si tratta però di una forma di comunicazione subliminale, che usa la “sparizione” dell’architettura come strumento per sancire la propria efficacia come progetto “sostenibile”. D’altronde, che un edificio in qualche modo simbolo dell’era dell’Antropocene tenda a nascondere l’artificio che lo rende possibile non manca di una sua logica. Un approccio eco-cosmetico può inoltre rivelarsi più coerente, e persino paradossalmente sincero verso se stesso e gli altri, rispetto a ricerche progettuali che dichiarano e perseguono obiettivi di efficienza prestazionale in termini energetici, sociali, ecologici etc. La retorica che le sostiene, sia derivata dalla visione modernista che in opposizione a essa, rivisita in chiave sostenibile la relazione diretta tra funzione e forma proposta ben più di un secolo fa da Louis Sullivan. Il progetto “ecoefficiente” sembra riproporre la medesima fiducia positivista, confidando nella capacità di penetrazione ideologica delle semplificazioni funzionaliste, ma esponendosi a rischi di fallimento ancora maggiori. Come è noto, il tentativo dei protagonisti del moderno di trasferire nell’organizzazione dello spazio la logica lineare della produzione taylorista – la ferrea divisione di mansioni e tempi della catena di montaggio – si è scontrato con la difficoltà di mantenere il controllo verticale su sistemi complessi e sulla loro crescente indeterminazione. L’ipotesi sostenibile, olistica per definizione, coinvolge evidentemente livelli di complessità molto più elevati rispetto alla logica funzionalista e richiede pertanto una sorveglianza ancora più pervasiva dei comportamenti individuali e della loro integrazione collettiva, con una crescita esponenziale dei problemi all’aumentare della scala. Masdar , la città progettata da Foster+Partners nel 2006 nei pressi dell’aeroporto di Abu Dhabi con l’obiettivo di neutralità nel ciclo del carbonio, rappresenta da questo punto di vista un esperimento significativo, anche per le contraddizioni che ha contribuito a evidenziare. Pensata per cinquantamila abitanti e realizzata solo in minima parte, Masdar ha affrontato la crisi finanziaria del 2008 ridimensionando radicalmente i propri obiettivi e, soprattutto, rivedendo la strategia di base che doveva assicurarli. �uest’ultima si basava in sostanza su un isolamento sistematico tra interno ed esterno, non solo dal punto di vista edilizio, ma anche urbano, sociale e della mobilità. Inscritta in un quadrato e dotata di navette elettriche a guida autonoma, Masdar doveva funzionare come una gated community , una città murata capace di controllare i flussi in entrata e uscita di materie e, soprattutto, di persone. �ueste ultime erano divise tra residenti, il cui numero programmato non poteva ovviamente variare, e pendolari non ammessi a soggiornare all’interno del recinto (in genere, stranieri con diritti limitati secondo il cosiddetto sistema Kafala di “sponsorizzazione” dei lavoratori immigrati). In altre parole, la macchina urbana era considerata virtualmente non modificabile e la sua neutralità energetica

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