94 95 «Allora diciamo – argomenta Pirni – che forse almeno due o tre principi devono essere messi in chiaro. C'è il principio della messa a disposizione, cioè dobbiamo pensare che chi verrà dopo di noi possa avere a disposizione almeno lo stesso ammontare di beni di cui la nostra generazione, nel nostro tempo, ha goduto ed è riuscita a formare. Il secondo tema è il principio del provare a rendere il tutto in forma di rinuncia per il presente, cioè pensare a come noi possiamo gestire il presente ricordando che non dobbiamo consumare tutto, o non possiamo lasciare tutto alla libera fruizione di chi pur ne avrebbe la disponibilità. Esiste poi la necessità di creare un altro livello di beni: non possiamo solo non consumare l'esistente, ma dobbiamo creare un non-ancora-esistente per metterlo a disposizione di chi verrà dopo di noi. Insomma, dobbiamo mantenere alti i livelli dei serbatoi, diciamo così, dell'esistente, ma anche provare a immaginare nuovi serbatoi e nuovi carburanti che, all'interno di quei serbatoi, devono e possono essere ospitati. Da questo punto di vista, la partita è terribilmente aperta. C’è bisogno di rinnovati dialoghi fra nuovi Nord e nuovi Sud del mondo, ovvero fra nuove comprensioni dell'idea di Nord e dell'idea di Sud del mondo. �uesti sono solo capitoli di un possibile saggio di teoria della giustizia intergenerazionale internazionale, ciascuno dei quali ha al proprio interno attivazioni del dibattito attualmente in corso cui stiamo provando anche noi stessi a partecipare. Insomma, a dire la nostra». A questo punto dobbiamo parlare della crisi climatica, di quello che, dopo la rivoluzione digitale, sta diventando il più grande "fatto" del nostro tempo, il più significativo, per dirla con un altro filosofo del presente come Timothy Morton, iperoggetto della nostra epoca. «�uesto per me è l'ambito più importante, più significativo di applicazione del plesso teorico al quale facevo ora riferimento. Come si colloca tutto ciò in relazione al clima? Il clima è un punto fondamentale, perché al suo interno ci sono tantissimi profili che vanno considerati. I primi, ovviamente, e non da oggi, sono quelli che gli scienziati, i fisici dell'atmosfera, i geologi, gli astronomi, i meteorologi, ci hanno posto di fronte. Ci sono una serie di dati scientifici ormai non oppugnabili che ci fanno pensare che la situazione sia inclinata verso una certa direzione. Però ci sono molti aspetti etico-sociali che devono ancora essere messi a fattore comune, soprattutto contrappuntati da opportune misure sia regolamentari, cioè politiche, sia tramutabili in vincoli giuridici». «L'etica però, da questo punto di vista, gioca un ruolo fondamentale, perché guardando il mondo come a un tutto, noi ci troviamo di fronte a una parte di esso che ha prodotto quello che oggi siamo soliti chiamare cambiamento climatico, che corrisponde alla stessa parte che ne sta subendo gli effetti minori. Cioè: c'è una parte del mondo che ha saputo sviluppare il proprio sistema di vita, i propri sistemi sociali e perché no, anche i propri sistemi giuridici in maniera molto ambiziosa, portando avanti modelli e politiche economiche dedicate al consumo di risorse molto rilevanti, e c'è un’altra parte del mondo che è oggettivamente rimasta indietro rispetto a questo sviluppo, e che sicuramente oggi ne sta subendo gli effetti maggiori». «Pensiamo alle piccole isole che si stanno via via inabissando, costrette a fronteggiare costanti tsunami, eventi climatici estremi o territori completamente inariditi, dai quali non riesce più a essere generata o proseguita alcun tipo di coltura agricola o alcun tipo di allevamento di animali. �uesti territori ospitano decine, centinaia di migliaia o qualche milione di persone, e guardando tutto in prospettiva diacronica – cioè, di qui ai prossimi dieci/quindici anni – questi saranno necessariamente costretti a migrare, necessariamente costretti a trovare altre parti del mondo dove poter stare e dove poter tornare ad avere una logica di convivenza paragonabile a quella che avevano prima o, naturalmente, alla nostra. Chi sta subendo gli effetti maggiori della crisi climatica sono coloro i quali non l’hanno prodotto nel corso dei secoli e ne hanno subito, fin da allora, le prime e più rilevanti conseguenze in termini di sfruttamento di risorse territoriali, ambientali o anche agricole, di tutte le forme e specie». Le parole di Pirni sono chiare, accademiche. Ma quello che dicono, mi rendo conto mentre lo osservo dallo schermo del mio portatile mentre me ne sto circondato da migliaia di libri e dalle mie corazze intellettuali nel soggiorno di casa mia, sono concetti potenti, un atto d'accusa. Anzi: sono una presa d'atto del modo in cui abbiamo costruito le condizioni stesse che mi hanno portato a essere qui, ora, in questo modo. Io, non altri. O, meglio, io come milioni e milioni di altri. E lo spirito di Kafka – nei cui racconti la colpevolezza non è mai messa in dubbio – torna ad aleggiare intorno a me. «Si apre da qui un'opzione, un'opzione etica, che ha a che fare con alcuni profili fondamentali, cioè con la necessità di prepararsi a una transizione ecologica che significa non soltanto prendersi per mano e andare a camminare qualche ora in più, o usare la bici piuttosto che il motorino, o l'auto elettrica anziché quella a combustibile fossile. Dobbiamo soprattutto comprendere come redistribuire risorse, cioè come poter dare vita a quella che si chiama energy justice: una continuità di fornitura energetica, ad esempio, a Paesi che non ne hanno, o pensare alla transizione ecologica non solo come a una scampagnata da alcune abitudini verso altre migliori, ma anche come a una possibilità di rinuncia. Da questo punto di vista la giustizia intergenerazionale, la giustizia tra le generazioni, deve poter rendere avvicinabile questo nuovo ordine di questioni e poter far familiarizzare coloro i quali dovranno rinunciare a qualcosa con l'idea e la necessità di una rinnovata forma di reciprocità, anche e innanzitutto fra diverse aree del mondo». Rinunciare, certo, moderare. Un giorno, un grande banchiere italiano mi ha detto che dovremmo fermarci ad abbastanza profitto. Ora Pirni mi dice una cosa simile, a livello di consumo di suolo e di risorse. Ma chi quantifica questo "abbastanza" mi pare il vero tema. Perché, a un certo punto, questo potrebbe essere l'elemento che definisce o nega lo spazio di azione – quindi, per usare una brutta parola, il "potere". «Le idee potrebbero esserci, ci sono, e va anche detto che il nostro Paese è spesso stato molto all'avanguardia per la produzione di idee, per il saper lanciare spunti, per il saper essere bravi o innovativi nell’immaginare il futuro, sotto tanti profili. Non si tratta solo di creare un'idea di risparmio, di non-consumo rispetto a quello che abbiamo, ma anche di immaginare qualcosa di altro rispetto a quanto non abbiamo. Riguardo all’idea di Abbastanza, in realtà, per mettere a nostro agio tutto ciò – anche se può sembrare una battuta di bottega o partigiana per chi fa filosofia – direi che forse dovremmo tornare a leggere i classici e, accanto alla lettura di Platone, dovremmo avvicinare la lettura del Libro V dell’Etica Nicomachea di Aristotele, il quale ci disegna in termini destinati a restare paradigmatici la Teoria dell'Equità, la quale fa un passaggio ulteriore rispetto ai profili che le accennavo prima. Come si fa a essere equo? Aristotele dice che l'equità è il perfezionamento della giustizia. Ma allora come si fa a essere più perfetti della giustizia? Se la propria giustizia è già equilibrare – hai avuto un torto, ti viene restituito; hai un grande merito, ti viene riconosciuto – cosa c'è di più perfetto di quello? Beh, l'idea dell'equità secondo me, e così ho provato a dipingerla, è quella di una grande macchina teoretica per abbattere quella che chiamo la indifferenza intergenerazionale». «Ma restiamo ancora sull'Abbastanza: immaginiamo che l'equità sia qualcosa rispetto alla quale io avrei un entitlement giuridico. Cioè immaginiamo che io, noi, i nostri figli, siamo tutti intorno a un tavolo, abbiamo un’ottima torta e iniziamo a dividere le fette. Probabilmente, essendo io e lei due persone adulte, avremmo diritto a una fetta in più, magari a una fetta più grossa. E tuttavia noi diciamo che, pur avendone diritto, rinunciamo a prenderla. Pur avendo quella possibilità di sviluppo in più, rinunciamo a percorrerla. Pur avendo quella possibilità di guadagno ulteriore, rinunciamo a portarlo a casa. Perché? Perché, nel rinunciare, stiamo rendendo disponibili quelle risorse, quei beni, quelle possibilità di guadagno, quelle possibilità di sviluppo per qualcun altro. Stiamo cedendo spazio per darlo a qualcun’altro, ma noi non stiamo perdendo nulla, perché io e lei eravamo già sazi con una fetta di torta. Avremmo avuto diritto a due fette, ma questo non ci avrebbe dato una sazietà ulteriore. Non esiste un profilo della sazietà ulteriore che ci possa dare maggior soddisfazione, ma soltanto un senso di sovra-pienezza che è quella sovrabbondanza dell'inutile, quell'oltre l’Abbastanza che non possiamo più permetterci. Rileggere Aristotele quindi, ma forse anche i medievali, e magari anche i contemporanei». La domanda che mi pongo, mentre ascolto il ragionamento limpido del professore, è più fosca, più calata nella dimensione primordiale dell'umanità. Perché dovrei preoccuparmi degli altri quando ho già tutto quello che serve a me, e soprattutto perché dovrei rinunciare a qualcosa per qualcuno che non c'è? «Mi sono occupato di un argomento contro l'indifferenza intergenerazionale. Come funziona questo dispositivo? Beh, noi siamo soliti pensare che l'indifferenza sia qualcosa di non positivo; ovviamente, i profili psicologici e morali che guidano l'indifferenza sono molto più complessi, ma c'è anche un'indifferenza buona, che è quella dalla quale parte la soggettività umana. Io sono indifferente all'altro intorno a me, innanzitutto perché devo formare la mia identità personale, devo capire chi sono io, chi vorrei essere. Non stiamo condannando quel tipo di indifferenza, bensì quella che si scarica nella forma di non tenere conto dell'esigenza dell'altro, che ha una serie di strali morali. Un conto è se lei è indifferente nei confronti di qualcuno che stasera suona alla sua porta e le chiede aiuto; ma il tema, quando l'indifferenza si scarica a livello intergenerazionale, genera un'ottima possibilità di sconto morale, nel senso che chi potrebbe sentirsi colpevole per non aver fatto qualcosa nei confronti di chi non conosce e non conoscerà mai? Io mi sento colpevole se non aiuto adesso la persona che me lo sta chiedendo entrando da questa porta, ma come faccio a sentirmi colpevole nel non aiutare la persona che entrerà da questa porta chiedendo aiuto a qualcuno che sarà qui tra vent'anni?» «Forse dovremmo riprendere da questo punto di vista – e sarebbe bello che lo facesse, per esempio, anche il sistema bancario – l'idea stessa di un istituto bancario che nasce dal diritto delle obbligazioni. Si chiama istituto del solidario. Il tentativo di pensare che quell'istituto portava avanti anche un diritto dell'obbligazione per cui io, lei o qualcun altro decidiamo di comprare qualcosa, ma nel farlo non solo ci accolliamo una parte del costo, ma ciascuno di noi si prende l'impegno di pagare anche se qualcun altro tra di noi non ne avesse più la possibilità, entrando così in una solidarietà che è, in realtà, solidità economica: noi siamo solidi abbastanza per poter assorbire il non pagante. Ora immaginiamo, a livello intergenerazionale, in che modo garantire questa solidarietà verso chi non è ancora qui. Innanzitutto lasciando meno debiti che possiamo – perché sappiamo che saranno loro a doverli pagare per noi. Siamo dunque responsabilizzati nel pagare per loro, evitando per noi la possibilità di spendere oltre misura. Ciò funziona per le giovani generazioni ma anche per la silver
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