Ossigeno

69 Nel 1917, garantendo invisibilità alla propria identità firmandosi in anonimo R. Mutt , nellostesso spirito del Nessuno di Ulisse, Marcel Duchamp inviò, in occasione di unamostra collettiva, un orinatoio in porcellana bianca al Comitato di Selezione della Society of Independent Artists di New York, organizzazione di cui egli stesso faceva parte. Scandalo. Una volta uscito dall’invisibilità per sé scelta in quella circostanza (e, a seguire, in molte altre, a cominciare dalla creazione del suo alter-ego femminile Rrose Sélavy), il padre dell’arte concettuale, marcando l’inizio di un nuovo pensiero artistico, affermò: «L’arte di domani sarà clandestina» . Clandestina. Invisibile e ribelle, dunque. Del resto, nulla più dell’invisibilità può servire da amplificatore per la capacità di immaginare, e nulla più dell’arte si nutre della potenza delle immagini, ma esiste una parola capace di definire lo spirito con cui l’arte contemporanea si relaziona all’immagine, suo nutrimento: quella parola è iconoclash . iconodulia /i·co·no·du·lì·a/ sostantivo femminile Culto esasperato o superstizioso delle immagini sacre. iconoclastia /i·co·no·cla·stì·a/ sostantivo femminile Movimento religioso sorto nella chiesa bizantina nei secc. VIII e IX, contrario a ogni forma di culto per le immagini sacre e propugnatore della loro distruzione. Iconoclasta fu l'Islam nella proibizione dell'uso dell'immagine di Maometto, così come iconoclasti furono il calvinismo e il movimento puritano, sviluppatisi con la Riforma protestante in epoca piùmoderna, che portarono alla distruzione di molte statue ed effigi nelle chiese e cattedrali nord-europee riformate. Fu il filosofo Bruno Latour, nel 2002, in occasione dell’inaugurazione della mostra omonima negli spazi dello ZKM di Karlsruhe, a coniare e definire l’ iconoclash : un’esitazione, una terra di mezzo, un legittimo dubbionei confronti del bipolareprocessodi creazionedell’immaginesucui l’artecontemporaneasi fonda. Niente di più chiaro delle sue parole a catalogo: «Non c’è laboratorio migliore dell’arte contemporanea per fare emergere e per testare la resistenza di qualsiasi oggetto che comprenda il culto dell’immagine, della bellezza, dei media, del genio. Da nessun’altra parte si sono ottenuti così tanti effetti paradossali sul pubblico, con lo scopo di rendere più complessa la sua reazione alle immagini. Da nessun’altra parte sono stati elaborati tanti tentativi di rallentare, modificare, turbare o eliminare lo sguardo ingenuo e il regime scopico. Ogni cosa è stata lentamente sperimentata e fatta a pezzi: dalla rappresentazione mimetica all’ideastessa di produrre immagini, dalle tele al colore, dall’operad’artefino allafigurastessa dell’artista , alla sua firma, al ruolo dei musei, aquello dei mecenati e dei critici. Ogni dettaglio di ciò che è l’arte, e di ciò che è un’icona, un idolo, una visione, uno sguardo, è stato gettato nel calderone per essere cucinato e consumato […]. Un Giudizio Universale è stato formulato, generazioni di iconoclasti che si sono distrutti le facce e le opere a vicenda. Un favoloso esperimento di nichilismo su vasta scala. Una gioia maniacale nell’autodistruzione. Un sacrilegio. Una sorta di deleterio inferno aniconico. E tuttavia, ovviamente, come ci si potrebbe aspettare, c’è qui un altro tipo di iconoclash: un continuo distruggere e ricostruire (cfr. Hans Ulrich Obrist). È stata trovata, al di fuori di questo ossessivo esperimento per evitare il potere della tradizionale produzione di immagini, un’incredibile fonte di nuove immagini, nuovi media, nuovi oggetti d’arte, nuove strategie per moltiplicare le possibilità di visione. Più l’arte è diventata sinonimo di distruzione dell’arte, e più ne è stata prodotta, valutata, discussa, comprata, venduta, e sì, venerata. Si sono prodotte nuove immagini così potenti che è diventato difficile comperarle, toccarle, bruciarle, ripararle, […] generando in questo modo dei nuovi casi di iconoclash ». Distruggere per ricostruire, opere, facce e identità, presunti iconoclasti, reali iconoduli, che hanno riconosciuto nell’invisibilità – come annientamento dell’immagine, ma anche del sé – un atto dovuto per la continua rinascita dell’arte stessa. Un nome su tutti, quello del torero d’arte Carmelo Bene, sommo cantore dell’ o-scenità come essere fuori dalla scena – o, come diceva lui stesso, visibilmente invisibile di sé , nella volontà di smarrire costantemente identità, senso e direzione. Smarrirsi, per non più ritrovarsi. Mettere in gioco la propria pelle, aqualsiasi prezzo. La sua fu arte come superamento di se stessa, come in certi capolavori quali, per suo riconoscimento, le tele di Francis Bacon, ritratti e autoritratti torturati dal suo gesto artistico, carichi di energia dinamica sospesa per trascendere l’arroganza di un’identità capace solo di autocelebrarsi, celebrando così il nulla, perché il volto è un luogo politico tanto quanto il corpo, e la sua cancellazione una precisa dichiarazione di ribellione . In pieno, antesignano furore iconoclash, la pellicola del capolavoro di Carmelo Bene Nostra Signora dei Turchi venne variamente calpestata, bruciacchiata, tormentata nel montaggio frenetico. Nel ricord arlo, Bene ammise: «La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino talvolta a bruciare e calpestare la pellicola. M'è riuscito filmare unamusicalità delle immagini che non si vedono ». Sinestesia possibile solo per mezzo dell’invisibile. giorno 2 «L’arte di domani sarà clandestina»

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